Come valorizzare il Tessile Moda Italiano
aprile 5 | Pubblicato da Luigi Sorreca | Biella, Carpi, Como, News, PratoLe proposte del Sistema Moda alla politica italiana
Milano, 4 Aprile 2013 – Michele Tronconi, Presidente Sistema Moda Italia, e Giuseppe Castagna, Direttore Generale e Responsabile della Banca dei Territori di Intesa Sanpaolo, con Paolo Zegna, Presidente Comitato Tecnico per l’Internazionalizzazione Confindustria, Carlalberto Corneliani, Presidente e Amministratore Delegato Corneliani, e Marino Vago, Amministratore Delegato Vago, in occasione di un Convegno organizzato da SMI in collaborazione con Intesa Sanpaolo a Milano, hanno discusso delle proposte rivolte alla politica italiana riguardanti la valorizzazione del Tessile Moda ‘made in Italy’.
La tavola rotonda, moderata da Paola Bottelli, Caporedattore Il Sole 24 Ore – Responsabile Moda24, è stata introdotta da una relazione di Gregorio De Felice, Chief Economist Intesa Sanpaolo, che ha illustrato “Il Sistema Moda nell’attuale contesto macroeconomico”.
Michele Tronconi, Presidente Sistema Moda Italia, nel suo intervento ha ricordato che, in base al dati preconsuntivi elaborati dal Centro Studi SMI, nel 2012 a fronte di un calo del 4,4% del fatturato complessivo (stimato in 50,4 miliardi di euro) si sono persi circa 16.000 posti di lavoro e hanno cessato l’attività oltre 1.300 aziende. Ha poi affrontato nel suo intervento l’annoso e mai risolto problema del cuneo fiscale, che pesa come un piombo, sia sulle imprese che sui lavoratori e la loro capacità di consumo.
“Quello che deve ritenersi scandaloso – ha detto il Presidente di Sistema Moda Italia – è che se ne parli nelle campagne elettorali, per mostrare un minimo di sensibilità per i problemi del lavoro e dell’industria, per poi arrendersi alle evidenti difficoltà attuative. Manca la volontà di condividere le priorità e di affrontarle in modo pragmatico; con la capacità di fare alcune cose prima e altre dopo. I politici parlano troppo di ciò che può far piacere al loro elettorato, ma una volta eletti devono concentrarsi sulle soluzioni veramente efficaci a favore dell’intera nazione. Per esempio, sul fronte del cuneo, invece che promettere riduzioni mirabolanti delle aliquote, ma solo per alcune categorie di soggetti, basterebbe reintrodurre la possibilità di pagare dei premi integrativi a titolo di liberalità, completamente detassati e de-contribuiti per tutti, sia per i lavoratori che per le imprese, purché entro un certo massimale annuo. Un maggiore pragmatismo è necessario anche nei rapporti fra parti sociali; tant’è che all’avvio del negoziato per il rinnovo del CCNL che ci riguarda, il sindacato ha accolto favorevolmente il nostro invito a trasformare il confronto in una sorta di politica industriale dal basso, ma fatica ad accettarne le conseguenze pratiche. Infatti ciò significa accettare anche un certo riordino delle priorità; prima viene la salvaguardia della continuità aziendale e dell’occupazione, poi viene la tutela del potere di acquisto delle retribuzioni. Questo, oltretutto, solo nella misura in cui nella singola impresa si riesca a migliorare la produttività e, quindi, a creare nuova ricchezza. Che è poi quanto ci esorta a fare anche il Governatore della BCE, Mario Draghi.”
Paolo Zegna, a sua volta, ha centrato il suo intervento sulla necessità di accelerare i processi di internazionalizzazione delle imprese e sulle priorità che vanno assunte. “In attesa del nuovo governo – ha spiegato il Presidente del Comitato Tecnico per l’Internazionalizzazione di Confindustria -, dobbiamo, come aziende e come sistema, continuare ad assumerci le nostre responsabilità, in un mondo che è decisamente cambiato, proseguendo nel fare tutte quelle cose che dipendono solo da noi e sono necessarie per affrontare le sfide che abbiamo di fronte. Potremo così risultare ancora più convincenti nei confronti delle Istituzioni che hanno, in diverse
materie, competenza sul nostro settore. Molte cose le stiamo già facendo, ma dobbiamo farle ancor di più e meglio. Le piccole medie aziende devono continuare a collaborare nel fare squadra, soprattutto nell’approcciare i nuovi mercati. Le grandi, a loro volta, hanno fatto e continueranno a fare da apripista, aiutando anche a far conoscere gli ostacoli e le opportunità che, in base alle loro esperienze, le aziende di minori dimensioni possono incontrare su scenari lontani e poco conosciuti. Devono essere studiati e realizzati, sempre di più, momenti di aggregazione e, in contemporanea, utilizzare al meglio energie e risorse facendo attenzione a non dissiparle in azioni di breve termine e di corto respiro. Facendo leva su esempi concreti, come ad esempio quello di Milano Unica, il Salone Italiano del Tessile, potremo far meglio percepire alle Istituzioni il ruolo e il valore che i beni di consumo del Made in Italy, già così apprezzati nel mondo, rappresentano come ambasciatori dell’Italia e di tutte le produzioni del nostro Paese. In questo modo avremo maggior legittimazione nel chiedere che le risorse per la promozione internazionale, nonostante i bilanci pubblici oggi in difficoltà, vengano potenziate, destinandole ad una programmazione di medio temine, su progetti di qualità”.
Carlo Alberto Corneliani ha ricordato che: “Con l’ingresso della Cina nel WTO, 100 posti di lavoro in un Paese a bassi salari hanno significato la perdita di 50 posti di lavoro nei Paesi di più antica tradizione manifatturiera. In Cina lo spostamento di centinaia di milioni di persone dalla campagna alla città ha comportato la creazione di altrettanti milioni di posti di lavoro nel manifatturiero, molti dei quali nel settore del Tessile-Abbigliamento. Quella produzione oggi è per oltre il 60% indirizzata ai consumi interni, ma la parte restante, una quantità impressionate, va all’export. Per noi questo ha significato la perdita della fascia media e bassa dei nostri tradizionali mercati e la messa in discussione dell’integrità della nostra filiera produttiva, che è il vero valore aggiunto del made in Italy. Io sono molto preoccupato, perché ho l’impressione che la vera crisi cominci adesso, con tantissime aziende che stanno saltando, a causa non solo della concorrenza, ma degli alti oneri fiscali che gravano sul lavoro, a partire dall’Irap, dei costi dell’energia e dei costi delle diseconomie del sistema-Paese. Noi abbiamo una grande ricchezza, il nostro patrimonio culturale e paesaggistico, che non ha eguali al mondo, come già ci ricordava 250 anni fa Goethe, che potrebbe attirare decine di milioni di turisti-consumatori in più degli attuali, contribuendo anche alla ripresa del nostro settore. Ma abbiamo un sistema di trasporti, di accoglienza, museale e culturale non adeguato all’immagine di ‘Giardino del mondo’ che dovremmo fortemente rilanciare”.
Mentre Marino Vago, sottolineando l’importanza dell’intervento sui costi dell’energia per il settore a monte della filiera, ha detto: “Soprattutto in questa difficile situazione congiunturale, è di fondamentale importanza che si proceda all’uniformazione della nostra disciplina con i criteri comunitari, al fine di supportare quelle aziende italiane che ancora operano in un settore di grande importanza per l’economia italiana e che, secondo le disposizione comunitarie, risulta energivoro, ma non è considerato tale in conformità alle disposizioni nazionali. La Direttiva 2003/96/CE definisce energivora un’impresa in cui i costi di acquisto dei prodotti energetici ed elettricità siano pari almeno al 3,0 % del valore produttivo ovvero l’imposta nazionale sull’energia pagabile sia pari almeno allo 0,5 % del valore aggiunto’. Purtroppo, questa specifica definizione non è stata ancora recepita nella disciplina italiana, che invece individua attualmente i settori ‘energy intensive’ basandosi sulla quantità dei consumi di elettricità e gas, e non, come previsto a livello europeo, sull’incidenza di tali consumi sui costi aziendali (intensità energetica). Il risultato è che sosteniamo costi per l’energia superiori al 30% rispetto ai nostri concorrenti. Da ultimo ma non meno importante vorrei sottolineare il problema della reciprocità. Noi per esportare in Cina, negli Stati Uniti, in Giappone e in gran parte del resto del mondo dobbiamo sottostare a regole e procedure molto severe e puntuali, così non è per chi esporta in Europa da quei Paesi. In Europa, interessi divergenti tra i Paesi membri dell’Unione determinano una situazione che penalizza fortemente i Paesi che hanno, fortunatamente, ancora un’industria manifatturiera”.